La prima volta
di Valter Zucchiatti
Dal medioevo e fino in età moderna era consuetudine che chi abbandonava questo mondo, affinché la gente lo ricordasse nelle preghiere quotidiane al fine di accorciare la permanenza della sua anima nel Purgatorio, lasciasse di sé un ricordo duraturo, cioè un legato, che generalmente era il favo o la minestra di fave, menzionata dalla metà del Trecento anche con i nomi di elemosina, settimina, ebdomada, pauperilia, e che rappresenta l'antenatadalla moderna jota: in un registro cividalese del 1432, infatti, troviamo annotate le spese per uno favo over elimosino con star di formento 9 e con stars di favo 3 e con cjâr di purziel e con altris cjosis che s'aparten a fa uno buino iottho e favo grasso ovvero 'per fare una buona jota e favo grasso'. Oggi la jota viene confezionata in decine di versioni con fagioli, carne di maiale, farina di mais, verdure e aromi, talvolta con l'aggiunta di brovada o crauti. Quella antica era invece fatta solo con le fave condite con abbondante carne grassa di maiale e altri ingredienti a discrezione, nella quale intingere il pane bianco, di frumento, un lusso per la povera gente alla quale era destinata. Va da sé che la distribuzione avveniva sul sagrato della chiesa o nei dintorni dopo la funzione religiosa che ricordava il donatore. Già nel 1230 le monache di Aquileia distribuivano ai poveri una minestra di fave accompagnata da pane e vino, ma non si sa altro. Più precisi sono i quaderni dell'ospedale di san Michele di Gemona dove nel 1380 il camerario registrò le spese per le fabe: circa 370 chili di fave, 50 di carne di maiale, cipolla, erbe non meglio specificate, sale e duemila pani. Nel 1388 un suo successore acquistò 172 chili di frumento, 120 di fave, quasi 4 quintali di carne, 20 chili di sale per conservarla e tanta cipolla. Nel 1443 a Tricesimo, per la minestra distribuita alla festa di santa Maria di Candelis, la Candelora, furono necessari 120 chili di frumento, 125 di fave, 150 di carne di maiale, cipolla e sale. La distribuzione della minestra ai pauperes Christi, i poveri di Cristo, era un obbligo al quale neanche le famiglie più indigenti potevano sottrarsi, perché la salvezza dell'anima nella gloria del Signore aveva la priorità assoluta sulle meschinità della breve ed effimera vita terrena. In Friuli l'ultima alimosina de la fava ebbe luogo a Gemona nel 1828, ma già nel 1810 Napoleone aveva soppresso le congregazioni religiose e incamerato i loro beni nel demanio statale, facendo venir meno le fonti economiche che permettevano il sostentamento dell'onere dei legati
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